Kevin Durant è uno dei più forti giocatori di basket di tutti i tempi. Ha vinto 2 Olimpiadi ed un Mondiale; è stato MVP della NBA nel 2014, è stato 4 volte il miglior marcatore della NBA, è stato per due volte MVP delle finali nei campionati vinti con Golden State nel 2017 e nel 2018. È stato anche uno di quelli più controversi, per la sua scelta di salire sul carro dei vincitori quando lasciò Oklahoma City per Golden State, a sua volta abbandonata fra le polemiche l’estate scorsa dopo l’infortunio e la finale persa contro Toronto. Insomma Durant non è un giocatore qualsiasi e l’annuncio della sua positività al Coronavirus, assieme ad altri 3 compagni di squadra dei Brooklyn Nets per un totale di contagiati nella NBA che al momento sale a quota 7, non è un annuncio qualsiasi. Gli Stati Uniti hanno, come quasi tutti i paesi e quasi tutti noi, inizialmente sottovalutato il pericolo del virus: basti pensare al centro di Utah Rudy Gobert che in conferenza stampa rispondeva ironicamente alle domande sui rischi da Coronavirus toccando sguaiatamente microfoni e persone, salvo poi risultare positivo. C’è stato un tempo, ormai 3 decenni fa, in cui si stava diffondendo una nuova malattia, che molti pensavano colpisse soltanto omosessuali e tossicodipendenti e da cui molte persone “normali” si ritenevano immuni. Fin quando il 7 novembre del 1991 Magic Johnson annunciò al mondo di essere sieropositivo, segnando una svolta nell’atteggiamento mentale di molti verso l’AIDS. No, Kevin Durant non è Magic Johnson, e il Coronavirus non è l’AIDS. Ma se l’annuncio di Durant, che essendo un giovane atleta asintomatico certamente non corre troppi rischi e che ha invitato tutti a fare attenzione e restare in quarantena, servirà a sensibilizzare una popolazione americana ancora troppo poco attenta ai rischi del Coronavirus, allora la sua positività avrà avuto, come quella di Magic, un effetto positivo.
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