Sembrerebbe ovvio, ma la Costituzione italiana non contempla l'italiano come lingua ufficiale della nazione. È pur vero - esordisce il professor Paolo D'Achille, nuovo presidente dell'Accademia della Crusca - che quello che manca nella Carta è surrogato dalla legge di tutela delle minoranze linguistiche del 1999, la quale stabilisce che "la lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano". "Perché sarebbe importante la menzione nella Costituzione? È ovvio che nel momento in cui la Costituzione è stata scritta, questa frase poteva suonare un po' eccesivamente audace, perché la Costituzione aveva anche il compito di riparare ad alcuni danni provocati dal fascismo, e in particolare doveva tutelare le minoranze linguistiche. Ma a distanza di tempo ormai e considerato che quasi tutti gli Stati hanno questa indicazione, sarebbe ora che la mettessimo anche noi. Interpretandola non nel senso di una lingua nazionale che si impone con la forza, ma come un diritto di tutti i cittadini perché l'italiano sia insegnato bene e anche come un dovere di conoscerlo. Insomma la lingua fa parte del nostro patrimonio culturale, e quindi mettere un po' di più l'accento sull'italiano può essere un dato significativo".
Se, per quanto riguarda l'inserimento dell'italiano nella Costituzione, ora al centro di una proposta di modifica costituzionale presentata dalla maggioranza di governo, la Crusca ha espresso da tempo il proprio parere favorevole, più cauta è la posizione degli accademici in merito all'altro intervento legislativo presentato in parlamento, che si propone di tutelare l'italiano dall'invadenza dell'inglese e che ha suscitato molte polemiche.
Spiega ancora il professor D'Achille: "Il fatto che lo Stato parli in italiano, che gli anglismi vengano il più possibile tradotti o comunque spiegati, che si eviti l'abuso di sigle modellate sull'inglese di fatto incomprensibili, su questo ci troviamo d'accordo. Mentre non ci troviamo d'accordo quando si parla di sanzioni, quando si parla della lingua comune (e non di quella istituzionale), quando scendiamo appunto in recuperi nazionalistici di una politica linguistica che di fatto è fallita. Dunque, non una grammatica di Stato, non delle liste di proscrizione nei confronti degli anglismi, ma una maggiore attenzione alla salvaguardia dell'italiano, al suo insegnamento anche all'università, al rafforzamento dell'uso dell'italiano nella ricerca scientifica".