La crisi coronavirus non ha calmato la violenta disputa tra governo montenegrino e Chiesa ortodossa serba in Montenegro, scoppiata a fine 2019 a causa di una discussa riforma sulle proprietà ecclesiastiche, che il clero denuncia come un vero e proprio tentativo di esproprio.
Anzi, nelle ultime settimane la tensione è esplosa proprio nel contesto della pandemia, quando il 12 maggio scorso il vescovo di Nikšić Joakinije e otto sacerdoti sono stati fermati dopo che una folla di fedeli si è assiepata nel famoso monastero di San Basilio a Ostrog per la tradizionale processione, in violazione delle norme anti-epidemiche. Al fermo sono seguite proteste di piazza in varie città del paese, sfociate in violenti scontri con la polizia, con poliziotti e manifestanti feriti e almeno cinquanta arresti.
Le radici della disputa sono in realtà profonde: nonostante l'indipendenza ottenuta nel 2006, il Montenegro è ancora diviso in campi opposti sulla questione dell'identità, che si sovrappone alle contrapposizioni politiche.
Se il Partito democratico dei socialisti del presidente Đukanović, al potere ininterrottamente dal 1991, è diventato negli anni fermo portavoce di un'identità montenegrina separata, buona parte dell'opposizione che gravita intorno al Fronte democratico rivendica una tradizionale appartenenza alla nazione serba, di cui la Chiesa ortodossa rappresenta un pilastro identitario.
Non a caso nei giorni scorsi Đukanović ha fatto chiaro riferimento alla possibilità che lo stato appoggi il consolidamento di una chiesa autocefala montenegrina - che già esiste, ma non è riconosciuta dalle altre chiese ortodosse – per limitare in Montenegro l'influenza della Chiesa serba, considerata sempre più ostile.
Francesco Martino