L'ambasciatore statunitense in Ungheria, David Pressman, ha accusato il governo di Viktor Orban di essere troppo sensibile ai richiami che arrivano dalla Russia e ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a introdurre sanzioni contro personalità ungheresi molto influenti. Un inedito per un paese che è membro delle istituzioni euro-atlantiche, ma che continua a intrattenere rapporti con Mosca.
La situazione era su un piano inclinato da tempo, al punto che la conferenza stampa convocata dall'ambasciatore ha sorpreso pochi osservatori. Pressman, difensore dei diritti Lgbtq catapultato nel paese delle leggi omofobe, è l'uomo che da settembre scorso tesse le relazioni diplomatiche tra i governi ungherese e statunitense. 46 anni, gay, progressista, è stato accolto - insieme al marito e ai due figli - dall'accusa di voler «colonizzare il Paese con il suo culto della morte». Come prevedibile, Pressman è presto diventato il catalizzatore degli attacchi diretti agli Usa, soprattutto dai filo-putiniani.
Se prima il gruppo di Visegrad sembrava un blocco compatto sul quale puntare il dito per mettere in evidenza i dis-valori dell'Unione europea, l'invasione dell'Ucraina ha giocoforza cambiato le carte in tavola. E se con la Polonia Washington ha stretto i rapporti nonostante le derive dello stato di diritto a Varsavia, con Budapest è diverso: secondo la Casa Bianca è una porta aperta verso Mosca e Pechino.
A febbraio, Pressman ha criticato la vicinanza dell'Ungheria alla Russia. "I politici del governo ungherese parlano spesso di promuovere la pace, ma dalla condanna delle sanzioni all'accettazione delle proposte di cessate il fuoco russe, continuano a esprimere opinioni sostenute da Putin", ha dichiarato all'epoca. Ma più di tutto, ha detto ieri Pressman, preoccupa che il governo ungherese non abbia prestato ascolto alle preoccupazioni degli Stati Uniti sollevate sulla presenza della Banca internazionale per gli investimenti, controllata dalla Russia. Da ieri sembra essere iniziato un nuovo capitolo nei rapporti fra Ungheria e Stati Uniti.
Valerio Fabbri