Emergenza sanitaria, contestazione politica, divergenze sul destino del Kosovo: sono questi gli ingredienti della crisi che scuote la Serbia, facendole guadagnare da quasi una settimana l'attenzione dei media mondiali.
La scintilla che ha riacceso lo scontro è legata al nuovo rapido aumento dei casi di COVID19, che martedì scorso ha spinto il presidente Aleksandar Vučić ad ordinare nuove misure restrittive, dopo averle allentate per tenere le elezioni da lui stravinte lo scorso 21 giugno.
All'annuncio, però, sono seguite proteste di massa, soprattutto a Belgrado, sfociate venerdì sera in scontri violentissimi tra polizia e manifestanti, con decine di feriti – tra cui alcuni giornalisti – e più di settanta arresti.
Ieri le proteste sono continuate senza scontri, ma la situazione resta nervosa: al malcontento per un possibile nuovo lockdown, ritirato in fretta dopo gli scontri di piazza, si unisce la frustrazione di una fetta importante della società, che si sente ancora più marginalizzata dopo le elezioni, e accusa Vučić di aver imposto al paese un regime autoritario.
A gettare ulteriore benzina sul fuoco c'è anche l'eterna e controversa questione dello status del Kosovo, con negoziati di fatto riaperti in questi giorni col patronato di Francia e Germania dopo il flop della controversa iniziativa diplomatica americana, affossata nelle scorse settimane dall'incriminazione del presidente kosovaro Hashim Thaçi per crimini di guerra.
E mentre il braccio di ferro continua, il numero complessivo di casi di coronavirus in Serbia ha superato i 18mila, mentre i morti sono quasi 400.
Francesco Martino