L'Unione europea sta promuovendo attivamente la transizione del continente verso una società a basse emissioni di carbonio, e sta aggiornando le regole per facilitare i necessari investimenti pubblici e privati nella transizione verso l'energia pulita, che dovrebbe contribuire a far bene non solo al pianeta, ma anche all'economia e ai consumatori. Tra le promese, gli intenti e i fatti però c'è distanza.
In Europa non mancano le risorse minerarie, mancano le miniere. Rispetto al passato ne sono rimaste ben poche, e tra queste molte producono carbone, il combustibile più inquinante di tutti che viene estratto addirittura in otto delle dieci maggiori miniere a cielo aperto oggi in attività nel Vecchio continente, concentrate in Polonia e in Germania, e in tre delle dieci maggiori miniere sotterranee.
Mancano invece quasi completamente all'appello i metalli "green", quelli che ci serviranno in quantità crescenti per sostenere la transizione energetica senza sviluppare allo stesso tempo una dipendenza sempre più forte e pericolosa da un numero ristretto di fornitori stranieri, Cina inclusa.
La Commissione europea pone traguardi ambiziosi, tra cui la produzione autonoma per il 10% del fabbisogno di materiali critici entro il 2030. Ma oggi come oggi non si estrae nemmeno un grammo di terre rare, materie prime "critiche" per eccellenza, di cui Pechino ha un monopolio quasi assoluto e per alcune delle quali c'è un alto rischio di carenze, come ad esempio del neodimio e del praseodimio, usati per auto elettriche e impianti eolici.
Se la transizione verde procederà davvero a grandi passi, come prescritto dall'ambiziosa tabella di marcia europea, le materie prime potrebbero diventare un problema ancora più serio di quanto accaduto. La decarbonizzazione taglia l'impiego di combustibili fossili, ma mette letteralmente il turbo ai consumi di metalli. E a metterci in difficoltà potrebbero essere anche i metalli "tradizionali", non inseriti nella lista dei materiali critici.

Valerio Fabbri