Per Knez la comunità italiana di Slovenia e Croazia oggi è una reliquia che non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso le paure che le ha inculcato il regime ed oggi sarebbe necessaria una seria riflessione sulla sua storia, anche assieme agli esuli.
Knez, che si muove con una certa padronanza nel mondo della storiografia regionale, descrive il presidente jugoslavo Josip Broz Tito come una personalità complessa: “Bisogna capire di che Tito stiamo parlando? C’è il leader della Resistenza, per molti un eroe che combatté contro le forze dell’Asse. C’è il rivoluzionario che prese il potere durante la Seconda guerra mondiale e negli anni successivi, dove venne messa in atto una lotta non soltanto contro la componente italiana, ma anche contro gli stessi slavi meridionali. Qui vennero prese di mira le formazioni che si erano schierate contro di lui, ma anche quelli che non la pensavano come la leadership comunista. C’è poi il leader terzomondista, quello degli anni Sessanta che fu beniamino degli oppressi e la guida dei Non Allineati. In sintesi, un personaggio poliedrico, con molte sfaccettature su cui non me la sento di dare giudizi lapidari. Sicuramente un personaggio controverso di cui non si possono dimenticare i lati meno nobili, oscuri e feroci”.
L’avvento di Tito in Istria provocò con una riduzione, per non dire una vera e propria catastrofe per l’italianità di queste terre. La comunità italiana come deve guardare a questa figura.
“Per quanto riguarda la comunità italiana l’avvento del comunismo è l’inizio della fine di un popolo, abbarbicato, radicato sul territorio. Si tratta di una comunità che non è arrivata tra le due guerre mondiali, ma le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Da questo punto di vista non si possono comprendere le simpatie nei confronti del regime, ma non dobbiamo dimenticare che spesso supportare Tito ed il comunismo significava sostenere l’Unione Sovietica e Stalin in una ottica internazionalista. Una fetta importante della popolazione era di sinistra. Si pensi all’Albonese, a Pola, ma anche a Capodistria e Pirano dove operavano con leader come i Nobile o Sema. In Istria c’era poi una figura come quella di Giuseppina Martinuzzi, che operò tra Otto e Novecento. Sono personaggi importanti che guardavano con simpatia al socialismo e più tardi al comunismo, ma in un’ottica internazionalista e non in termini nazionali”.
Nella variante di Tito però le velleità internazionaliste furono presto accantonate.
“Lui perseguì anche degli obiettivi politico - nazionali, che non aveva inventato. Fece propri i desiderata politico-nazionali, soprattutto di sloveni e croati, che avevano preso piede sino da metà Ottocento. Questi avevano - e tuttora riscuotono - parecchi consensi anche tra quei personaggi che non erano ideologicamente schierati con i comunisti. Per loro Tito è colui che ha concretizzato un percorso molto lungo e arduo, nato al tempo della Primavera dei popoli e manifestato ad esempio con il programma della Slovenia unita del 1848".
Quindi piazza Tito a Capodistria è non tanto dedicata al leader comunista, ma a colui che diede questi territori alla Jugoslavia e quindi alla Slovenia
“Certo. Per alcuni sarà dedicata al leader comunista, ma per la stragrande maggioranza è intitolata a colui che fu l’artefice di un sogno e questo viene continuamente rimarcato e sottolineato anche nelle ricorrenze, che celebrano l’annessione di questi territori”.
Se dipendesse da Kristjan Knez quella onorificenza italiana a Tito verrebbe revocata?
“Non so quanto senso abbia togliere onorificenze ai morti, anche se ciò non significa giustificare ciò che Tito ha fatto. Il giudizio storico - esaltati a parte - è chiaro. Far diventare la revoca dell’onorificenza a Tito una questione di vita o di morte lascia il tempo che trova. Forse invece andrebbe percorsa con più forza la strada caldeggiata dall’ex ministro della salute Lorenzin di dare una onorificenza al dottor Geppino Micheletti, che fu uno degli eroi di Vergarolla”.
La questione Tito sta riaprendo il dibattito su quello che fu la complicità della dirigenza della comunità italiana con il regime di allora.
“La polemica è stata montata in maniera pretestuosa e va a sostegno di una tesi che non è nuova e risale alla frattura del secondo dopoguerra all’interno della comunità italiana. Il teorema è che i rimasti fossero visceralmente comunisti, ma ha lo stesso valore di quella cara al regime comunista che etichettava tutti gli esuli come fascisti. Ci furono tra gli esuli alcuni fascisti convinti e tra rimasti comunisti altrettanto convinti. Una parte si è schierata, perché si è illusa, ma una buona parte è restata per una serie infinita di concause. Per dirla con Ezio Giuricin: ‘Chi rimase fu un popolo di sciagurati destinato all’esilio in casa propria. Come in ogni comunità nazionale che fu assoggettata e vinta al suo interno troviamo dei collaborazionisti e degli oppositori, ma anche persone che hanno coraggiosamente difeso, spesso pagando duramente, la propria identità nazionale, la propria libertà e la propria dignità di popolo e di uomini’. Una parte di questa comunità è rimasta sommersa ed una parte è uscita dalle catacombe soltanto negli anni Novanta. Se osserviamo attentamente una fetta della comunità italiana c’è, ma non si vede, e tuttora non partecipa alla vita strutturata della minoranza”.
Cosa resta della comunità italiana?
"Cosa resta? Oggi siamo i resti dei resti. Si tratta di una comunità debole, fragile, potremmo definirla una sorta di reliquia. Il dopoguerra è stato lungo, pesante ed è andato avanti sino agli anni Settanta e Ottanta. Anche in epoca relativamente recente le pressioni erano ancora presenti, non lievi. Si pensi solo al fotografo Virgilio Giuricin che, negli anni Ottanta, finì in carcere, condannato per una presunta opera di spionaggio. Oggi cosa rimane? La volontà e la tenacia di non tagliare il cordone ombelicale con le origini. Si guarda all’Italia ma bisogna anche parlare dei lati oscuri. Non ci si può limitare a dire ‘ci siamo ancora grazie alla perseveranza e alla nostra azione’. È necessario parlare anche di personaggi ambigui - e ce ne sono stati - ma bisogna vedere i problemi non in maniera univoca. Le cose non sono bianche o nere, ma hanno diverse sfumature. L’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume ha svolto un’opera ambigua e deleteria in determinati periodi storici, ma d’altra parte proprio grazie ad essa siamo quello che siamo, perché ha mantenuto - laddove era possibile - aperte le scuole e ha cercato di sviluppare lingua e cultura. Ad un certo punto, siamo negli anni Sessanta, ci sono alcuni intellettuali che cercano di allargare gli orizzonti e dare dignità alla comunità italiana”.“
Non c’era molto spazio per il dissenso in una comunità tenuta sotto controllo dal regime. Oggi c’è la sensazione che questa minoranza non si sia ancora scrollata di dosso le paure instillate a quei tempi. C’è la tendenza ancora di cercare di non irritare la maggioranza, di rimanere sottotraccia.
“Non so se questa comunità sia - come ha detto l’onorevole Battelli - ancora cloroformizzata dal regime, so però che ci sono ancora parecchi timori. Meglio lasciar correre, non affrontare i problemi, non soltanto del periodo jugoslavo, ma anche del periodo fascista, ma anche questioni legate agli ideali risorgimentali o all’irredentismo. C’erano e ci sono oggi quelli che io definisco guardiani della rivoluzione, che dettano legge ed hanno l’arroganza di definire quello che si può e quello che non si può trattare. Io stesso sono stato attaccato da alcuni di questi personaggi”.
Ma lei si sente una voce isolata all’interno della comunità italiana.
“Spesso e volentieri mi sono trovato a non avere interlocutori, ma ogni argomento si può e si deve affrontare, l’età dei tabù è tramontata. Io credo che in ogni Comunità degli italiani ci dovrebbe essere una targhetta con dei semplici dati: il numero o la percentuale di italiani del 1910 e di quelli ancora presenti nel 1961”.
Naturalmente queste targhe non verranno mai messe.
“Assolutamente no, ma avviare una riflessione seria sarebbe importante, anche con la componente esodata e sarebbe molto più rilevante di quest’opera di punzecchiamento sui social”.
Stefano Lusa