Molto conosciuto e amato in Slovenia, dov'è considerato alla stregua di un nume tutelare della cultura nazionale, scoperto in Italia a partire dalla pubblicazione, nel 2008, del memoir "Necropoli" e da allora oggetto di costante attenzione (non senza qualche fraintendimento da parte della stampa, che a volte l'ha fatto passare per uno scrittore sloveno tout court, anziché un autore dell''altra anima' di Trieste), Boris Pahor, 106 anni compiuti lo scorso agosto, più volte candidato al Nobel, incarna in maniera esemplare la figura dell'intellettuale che ha fatto dell'impegno e del messaggio civile il centro del suo operare e la finalità della sua scrittura. Dando la parola allo stesso Pahor, scrivere per testimoniare. E lui nel corso della sua lunghissima vita di eventi tragici ne ha attraversati tanti, i maggiori del secolo. La prima e la seconda guerra mondiale, le persecuzioni squadriste e fasciste nei confronti della sua minoranza, quella slovena, a cominciare dall'incendio del Narodni dom (lo scrittore aveva sette anni quando accadde, il 13 luglio 1920), l'inferno dei lager nazisti, che ha vissuto sulla sua pelle come deportato politico, infine la repressione comunista all'epoca della Jugoslavia di Tito. Esperienze che ha narrato nei suoi molti libri e nella sua produzione saggistica, tesa a mantenere vivo il ricordo di un passato drammatico. Insieme a "Necropoli", racconto dei giorni terribili nei lager, ritenuto il suo capolavoro, "Il rogo nel porto" e "Una primavera difficile" sono alcuni suoi titoli più significativi.
L'incendio del Narodni dom rimane per Boris Pahor un ricordo indelebile, un epidodio che ha segnato l'intera sua vita di uomo e di scrittore. "Credo perfino che il mio talento letterario, pur inconsapevolmente, sia riconducibile a quell'evento. Con una finalità: scrivere per testimoniare", ha raccontato qualche tempo fa al Corriere della Sera. Aggiungendo di sperare di esserci ancora, il 13 luglio. È una speranza che felicemente, e anche con nostra grande gioia, si avvera. (ornella rossetto)