Ognuno fa il suo mestiere. E i linguisti studiano le parole che usiamo. Ma sente un po' il bisogno di scusarsi l'Accademia della Crusca, e cioè la massima istituzione linguistica italiana, che, per voce del suo presidente, il professor Claudio Marazzini, sceglie di dedicare il tema del mese ai risvolti linguistici dell'emergenza coronavirus. Di scusarsi perché in questo momento "dovrebbero forse aver la parola solo gli esperti di medicina e di catastrofi", osserva il professore. Ma è un fatto che "ogni evento umano ha riflessi che toccano la lingua".
E dunque "coronavirus", ossia 'virus a forma di corona' per l'alone rivelato al microscopio; ossia, secondo la definizione che ne dà il sito Treccani, 'genere di virus responsabile di diverse malattie nell'uomo e negli animali, prevalentemente respiratorie e polmonari'. La parola - o meglio il composto - accosta due elementi latini, ma la costruzione è atipica per l'italiano, con l'elemento "virus" - che costituisce la cosiddetta la testa semantica - a destra invece che a sinistra, come avviene invece, per esempio, in "capostazione". E infatti "coronavirus", anche se formato con elementi latini, ci arriva dall'inglese, che ha diffuso il termine nel mondo a partire dal 1968, prima attestazione nell'Oxford Dictionary; mentre in italiano questa parola del linguaggio scientifico ora salita drammaticamente alla ribalta, ma non nuova, compare per la prima volta nel 1970.
Quanto al nome tecnico COVID-19 scelto dall'Organizzazione mondiale della sanità per indicare la malattia, ci fa notare ancora il presidente dell'Accademia della Crusca, "ormai tutti sanno (ma non sarà male ripeterlo) che COVID-19 è l'acronimo di Co (corona); Vi (virus); D ('disease', cioè malattia); "19" è l'anno di identificazione del virus. Ovviamente l'acronimo è costruito sull'inglese".
Ornella Rossetto