Intanto, cos'è la lingua, e cos'è il dialetto? Si dice spesso, e non senza qualche ragione, che non c'è poi una gran differenza. In effetti, dal punto di vista genetico anche i dialetti sono lingue, con una loro completa e autonoma organizzazione grammaticale che può essere analizzata e descritta; ben diversi però sono gli usi e le funzioni. Un esempio: come ci fa notare il glottologo Franco Crevatin, oggi anche "il nobile parlare di Venezia", usato per secoli da uno Stato, "è dialetto e ciò per l'ovvia ragione che se esci dal suo territorio dove è parlata materna per farsi capire (poniamo con un calabrese) si deve usare una lingua-tetto, ossia l'italiano".

Da poco le varietà venete dell'Istria, prima in Slovenia e poi in Croazia, hanno ottenuto il riconoscimento di bene culturale. È una splendida notizia, perché il dialetto veneto fa parte dell'identità del territorio istriano, in particolare di quella comunità italiana divenuta minoranza che lo abita da sempre. È il segno di una cultura e di una appartenenza. Non vorremmo però che l'italiano fosse per questo relegato ai margini, e si dimenticasse che fa parte della nostra identità di italiani d'Istria anche la lingua di Dante. Si sente affermare, con compiaciuta insistenza, che il dialetto è la nostra lingua madre. Ad essere precisi, ormai nemmeno noi istriani siamo tutti dialettofoni "primari" (abbiamo cioè imparato il dialetto come prima lingua e l'italiano soltanto a partire dall'ingresso a scuola). E questo ci sembra un fatto positivo sulla via di una più compiuta italofonia della nostra comunità, un obiettivo che non andrebbe perso di vista.

Ha ragione chi sostiene che non dobbiamo vergognarci di parlare in dialetto. Il problema è piuttosto un altro, è il disagio che molti di noi provano nell'esprimersi imperfettamente in italiano malgrado i molti anni di scuola e spesso anche di università frequentate in Italia. Dobbiamo per questo tornare tutti al dialetto? Niente affatto. Potremmo, invece, l'italiano, provare a parlarlo un po' di più, provare insomma a esercitarci, perché una lingua meno la parli e meno sei in grado di parlarla. E potremmo provare a riconoscerci un po' di più anche noi - come hanno già fatto gli italiani della Penisola - nella nostra lingua nazionale. Coltivare e continuare a imparare la lingua comune, dunque, che è nostra e ci appartiene non meno che agli altri italiani. Il dialetto, lingua delle radici e degli affetti, non va abbandonato, ma da solo non basta. O vogliamo restare dialettofoni e periferici per sempre?