"In questa corrispondenza di prigionieri, tutte le nazioni e parti di nazioni parlano la stessa lingua in diverse lingue (o dialetti), la lingua della fame e della nostalgia, l'amore della pace e del paese". Sono parole di Leo Spitzer, un grande studioso, il quale, addetto all'ufficio della censura postale dell'esercito austriaco durante la prima guerra mondiale, ebbe il compito di filtrare la corrispondenza degli internati italiani d'Austria e dei soldati italiani prigionieri della Monarchia. Fra questi molti nostri corregionali, istriani, triestini, anche fiumani e dalmati. Dire "ho fame" però era proibito: ne andava del prestigio dell'impero asburgico. E da qui nelle lettere tutta una serie di circonlocuzioni che Spitzer, precursore degli studi sull'italiano popolare, ha raccolto in un libro, "Perifrasi del concetto di fame", apparso nel 1920 ma solo adesso pubblicato in italiano (da Il Saggiatore, a cura di Claudia Caffi). C'è chi, per sollecitare aiuti alimentari da casa eludendo la censura cita il conte Ugolino che gli fa compagnia, chi ricorre all'anagramma: "fame" diventa "la signora Mefa". Si allude allo zio Magno, al "capitano A. Petito", ai tenenti Spazzola, Magrini e Stecchetti. Chi parla di "nostalgia gastrica", chi si lamenta dei denti che prendono la ruggine. E sono frequenti esclamazioni del tipo "sepatislafam", "cristochefamdelader".
Espressioni ricche di inventiva escogitate da persone spesso senza istruzione, gente che scrive come può spinta dal bisogno di comunicare in un italiano approssimativo, non senza tracce di dialetto. Ma prima ancora che documenti linguistici istantanee impressionanti dall'inferno della Grande guerra. Una tragedia da non dimenticare.
Ornella Rossetto