I porti italiani non sono delle imprese private e non sono assoggettabili al regime fiscale degli altri porti europei. Parte da questa tesi il ricorso presentato dalle 16 autorità portuali italiane, che controllano 54 porti di rilevanza nazionale, contro la decisione della Commissione europea che lo scorso 4 dicembre aveva dato due mesi di tempo all’Italia per abolire l’esenzione fiscale prevista per gli scali della penisola, e in particolare per applicare anche ai porti italiani, l’Ires, l’imposta sui redditi delle società.
Si tratta di una linea che, se applicata, accanto agli oneri economici per gli scali italiani, avrebbe anche effetti dirompenti sulla gestione dei porti rispetto al passato: la decisione (su cui l’ex ministra Paola de Micheli aveva lasciato scadere i termini del ricorso ministeriale, spingendo le autorità a presentarne uno in autonomia), equipara i porti italiani a imprese private, come accade in molti altri paesi europei, non considerando il fatto che in Italia le strutture portuali sono in realtà enti pubblici, e quindi non soggetti al pagamento delle imposte delle imprese private.
L’impostazione di Bruxelles da una parte sembra puntare se non a una privatizzazione, perlomeno a una gestione privatistica degli scali, dall’altra potrebbe avere un impatto sulla gestione, perché tutti i fondi statali erogati a soggetti privati devono sottostare alle regole sugli aiuti di stato, con procedure più lunghe e addirittura potere di veto su fondi destinati allo sviluppo delle infrastrutture.
Il ricorso presentato al tribunale dell’Unione europea, con la possibilità di arrivare alla Corte di giustizia, chiede di annullare la decisione della Commissione, sottolineando come Bruxelles non abbia considerato che “negli altri Stati membri gli enti gestori dei porti sono società per azioni, che gestiscono i porti alla stregua di imprese fornitrici di beni e servizi”, mentre in Italia le autorità portuali sono enti pubblici non economici, diretta emanazione dello Stato, “modelli tipici del diritto pubblico” e pertanto non possono essere “partecipate” da soggetti diversi dallo Stato”.
Anche il regime giuridico dei beni gestiti dalle autorità italiane è di tipo “demaniale”, sono esclusi “in assoluto alla proprietà privata e possono appartenere solo allo Stato o Regioni”, e gli stessi canoni che vengono versati alle autorità “non sono frutto di negoziazione” ma stabiliti dalla legge. “Non vi è quindi – dicono i legali dei porti italiani - alcun ‘mercato’, neppure potenziale”.
A ulteriore supporto della propria tesi le autorità portuali ricordano di essere perfino sottratte al diritto fallimentare: sono soggetti che non possono fallire.
“Lo Stato non paga tasse e non si pagano tasse sulle tasse” conclude il ricorso, che sottolinea come la Commissione “confonda la nozione di ‘proprietà pubblica’ con quella dell’appartenenza organica e funzionale alla Pubblica Amministrazione e allo Stato”, e violi “molteplici principi generali di diritto dell’Unione, fra i quali quello della parità di trattamento secondo cui è vietato trattare in modo uguale situazioni differenti”.
Alessandro Martegani