Hanno manifestato in undici città italiane i riders di Uber Eats, la società di consegne a domicilio che lo scorso giugno ha annunciato a sorpresa la cessazione delle attività e la chiusura della filiale italiana a partire dal 15 luglio.
Per i 49 dipendenti, perlopiù concentrati nella sede di Milano, è stata aperta la procedura di licenziamento, fra l’altro senza cassa integrazione per scelta dell’azienda, ma sulle sorti dei 3.800 rider, inquadrati come collaboratori occasionali o autonomi con partita Iva, (nonostante ci siano delle sentenze di procure del lavoro in varie città italiane che hanno ordinato alle maggiori società che si occupano di delivery di considerare i "riders" dei lavoratori dipendenti), non ci sono né reti di protezione né garanzie: cesseranno semplicemente di lavorare e guadagnare.
Su questi lavoratori il gruppo californiano non ha voluto nemmeno incontrare i sindacati. Roberta Turi, segretaria nazionale di Nidil Cgil, il sindacato che si occupa dei lavoratori atipici, ha definito il comportamento di Uber Eats “inaccettabile”. “Le piattaforme e le multinazionali – ha detto - non possono considerare il nostro territorio e la nostra forza lavoro come qualcosa di 'usa e getta', senza alcuna responsabilità sociale. I rider non sono lavoratori di serie B”.
Il sindacato ha quindi organizzato una giornata di mobilitazione nazionale con dei presidi in undici città italiane, a 24 dalla chiusura. Fra le altre anche Roma, Milano Napoli e Trieste.
I sindacati hanno chiesto “interventi immediati per tutelare sia i lavoratori dipendenti, mediante cassa integrazione straordinaria e adeguati percorsi di ricollocazione, sia le migliaia di rider assoldati con rapporti di lavoro precari, che ora si trovano senza alcuna protezione”.

Alessandro Martegani