Non molti non addetti ai lavori in quei giorni capirono subito alla portata di quello che stava succedendo, ma il crac della Lehman Brothers, la quarta banca degli Stati Uniti, fallita il 15 settembre del 2008, ha segnato un punto di svolta nella gestione degli istituiti di credito e fatto passare, perlomeno parte, il principio che anche in finanza i pasti gratis non esistono e che il divario fra economia reale e la finanza non può essere gonfiato all’infinito.
La Lehman Brothers, fino al 14 settembre considerata uno degli istituti di maggior successo, più solidi e antichi al mondo, era ritenuta “troppo grande per fallire”, ma nel settembre del 2008 fu travolta dalle insolvenze sui titoli derivati legati ai mutui subprime: si trattava di titoli ad alto rendimento, che si basavano sull’assunto che i mutui erano un prodotto sicuro, ma in realtà spesso erano stati concessi con troppa facilità e con tassi eccessivi dalle banche stesse.
Quando famiglie e imprese non riuscirono più a ripagare le rate di questi mutui, le quotazioni dei derivati crollarono, facendo crollare il valore di banche, hedge fund e fondi pensione e innescando una reazione catena.
Proprio perché era molto grande, con debiti per miliardi, non è riuscita la trattativa per salvare la banca, e Lehman ha dichiarato bancarotta, trascinando nel vortice altri istituti di credito, (tutte le banche di investimento del mondo avevano in pancia derivati legati ai mutui e a prestiti) e scatenando una crisi finanziaria che ha causato una recessione globale e la perdita di 30 milioni di posti di lavoro.
Il governo americano poi intervenne per evitare altri fallimenti, ma quei mesi misero in luce come il sistema bancario e finanziario aveva azzardato troppo, guardando a guadagni troppo alti senza considerare i rischi: si erano convinti tutti che il sistema coinvolgesse troppo banche e istituzioni per poter consentire un crollo, ma non era così.
Con gli occhi di oggi, dal punto di vista finanziario, probabilmente sarebbe stato meglio salvare subito al Lehman ed evitare la crisi globale e gli aiuti dei governi con un aumento del debito, ma è anche vero che dopo quei fatti fu imposta alle banche una maggiore solidità patrimoniale, anche se negli anni scorsi Donald Trump aveva deregolamentato questo aspetto per le banche medio piccole, come la Silicon Valley bank, che è fallita a marzo di quest'anno, ancora una volta per una gestione del rischio poco previdente.
Dall’altra parte, come capitato nel caso Credit Suisse, governi e banche centrali hanno capito che, nel caso di rischi per grossi istituti, è meglio intervenire subito piuttosto che pagare di più poi in costi sociali e debito, e anche risparmiatori e investitori hanno cominciato a capire che non esistono “investimenti sicuri” e che a grossi redimenti corrispondono anche grossi rischi.
Alessandro Martegani
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