Fulvia Zudič non ha bisogno di particolari presentazioni nella nostra regione, dove, anche per il suo ruolo di animatrice delle attività culturali della Comunità degli italiani di Pirano, è molto conosciuta e stimata. Decine e decine di mostre, personali e collettive, hanno reso familiare al pubblico il suo peculiare universo creativo, la decisa personalità di colorista, incisiva nel segno, la sua interpretazione originale e sensibile del paesaggio istriano, da sempre tema preponderante della sua opera. Linguaggio personalissimo e stilizzato, il suo, che tuttavia mantiene sempre la riconoscibilità del motivo rappresentato. Come nelle ben note vedute urbane dei centri storici con i loro elementi architettonici fondamentali, di cui questa mostra capodistriana - visitabile fino al 17 dicembre - costituisce ora l'ultima, suggestiva, declinazione. Le calli della città vecchia in una ventina di dipinti e disegni basati sulla modulazione dei toni del grigio, del marrone, del beige contornati dal caratteristico tratto nero, in un insieme di grande forza espressiva.
Artista eclettica, che alla pittura affianca l'illustrazione, la ceramica, la moda e i costumi, fino alla scenografia, Fulvia Zudič racconta così questa nuova esposizione proposta dalla Galleria Insula a cura del critico Dejan Mehmedovič, con l'adesione della Comunità degli italiani di Capodistria e la Can:
"Chi mi conosce sa che prima ero molto legata a Pirano, e per quanto riguarda le altre cittadine dell'Istria a quelle minori come Grisignana. Anni fa ho lavorato alle illustrazioni di un libro di Nelda Štok Vojkska e in questo modo sono approdata a Capodistria, di cui mi ha incuriosito sia il centro storico sia il circondario. L'altr'anno invece il critico Dejan Mehmedodovič dell'Associazione degli artisti Insula di Isola mi ha proposto di esporre a Capodistria, ed è stato automatico pensare di lavorare su questa città. Il lavoro che ho fatto è molto simile a quello che presentato a Pirano la scorsa estate, ma invece di dare ai quadri i nomi delle vie ho optato per delle sigle, così da farli diventare una sorta di documenti, come delle scatole d'archivio in cui si va un po' in cerca della nostra memoria".