La decisione di invadere l'Afghanistan il 27 dicembre del 1979 fu presa durante una riunione segreta del Politburo del Partito Comunista sovietico e fu definita inizialmente "un intervento di aiuto" ai fratelli del popolo afghano che dovette allora fare i conti con la rivoluzione islamica.
Un anno prima dell'occupazione, quando i comunisti assunsero il potere nel Paese, l'Unione Sovietica e l'Afghanistan firmarono un accordo sull'amicizia e la collaborazione.
Già il 24 dicembre 1979 Mosca inviò in Afghanistan in tutto 600.000 soldati per combattere contro i mujaheddin afghani, finanziati dai sauditi. A fornire loro le armi furono gli Stati Uniti, supporto logistico arrivò invece dal Pakistan.
L'Unione sovietica fu convinta che la missione sarebbe stata facile, ma l'Armata rossa non riuscì mai a fermare i mujaheddin. Solo il 14 aprile 1988 Mosca firmò a Ginevra un accordo sul ritiro delle truppe dal Paese, avvenuto poi il 15 febbraio 1989.
La direzione del Partito Comunista si congratulò con i soldati che svolsero il proprio compito "onestamente e con coraggio". I media sovietici però parlarono non solo di felicità per il ritorno dei soldati, ma anche di dolore per le perdite dei propri cari. Il leader sovietico, Mikhail Gorbachev, che ordinò il ritiro delle truppe, nel 2003 ricordava come il Comitato Centrale fu inondato di lettere con richieste di madri, mogli e sorelle dei soldati affinché la guerra finisca. "Gli ufficiali non riuscirono a spiegare ai propri subordinati perché' stavano lottando, cosa stavano facendo in Afghanistan e quale scopo avrebbero dovuto raggiungere", ha aggiunto Gorbachev, ammettendo poi che l'invasione dell'Afghanistan fu un serio errore politico.
E. P.