Secondo alcuni, un modo di aggiornare la lingua e assecondare la nuova sensibilità collettiva dell'inclusività; secondo molti altri un artificio, una forzatura o francamente una sciocchezza.
Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, lo "schwa" è una "e" capovolta che viene utilizzata nella scrittura al posto dell'usuale desinenza, con l'intento di evitare la distinzione tra maschile e femminile e soprattutto il ricorso al maschile unificante, cioè usato per maschile e femminile: "carǝ tuttǝ". Una specie di neutro, insomma, che (per i fautori dello schwa) avrebbe anche il vantaggio di includere le persone non binarie.
Dalle scritture private, questo segno grafico con cui i glottologi indicano fin dall'Ottocento un suono vocalico indistinto, presente in vari dialetti italiani ma non nella lingua nazionale, ha finito col prendere piede anche in altri contesti. Ha fatto notizia, la primavera scorsa, un comune emiliano che ha deciso di adottare l'innovazione sulla propria pagina Facebook. Ma ora lo schwa ha fatto la sua comparsa anche in documenti ufficiali del ministero dell'Università come le delibere con gli esiti delle selezioni del personale, e monta la rivolta di chi è contrario. Un'insoffferenza diffusa, a giudicare dalle migliaia di firme raccolte da una petizione di protesta lanciata su change.org dallo scrittore e linguista e Massimo Arcangeli, e sottoscritta da alcuni dei più importanti linguisti italiani. In testa il presidente dell'Accademia della Crusca Claudio Marazzini, e con lui Francesco Sabatini, Luca Serianni, Gian Luigi Beccaria; oltre a personaggi del mondo della cultura come lo storico Alessandro Barbero, la scrittrice Edith Bruck, il filosofo Massimo Cacciari.
Spacciare lo schwa per segno inclusivo è da incompetenti, dice in sintesi la petizione, che parla di una "follia bandita sotto le insegne del politicamente corretto da parte di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e scriventi", pur consapevole che l'uso della "e" rovesciata "non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico".
Il dibattito sull'argomento, che da avanti da un po' con toni anche piuttosto accesi, è insomma più aperto che mai.