Creare e assistere una comunità, stare assieme, partecipare alla crescita comune, combattere la solitudine sempre più diffusa nelle aree urbane. Sono solo alcuni degli obiettivi della rete “Habitat Microaree”, un programma di promozione del benessere e della coesione sociale sviluppato nei rioni di Trieste.
L’idea, lanciata nel lontano 1998, si è sviluppata a oggi in14 aree cittadine, corrispondenti a comprensori di edilizia popolare ad alta densità abitativa, in cui risiedono complessivamente quasi ottomila persone. Comune, Ater (l’Azienda territoriale per l’Edilizia residenziale), e una serie di organizzazioni e cooperative hanno creato dei presidi che fungono da punti di ascolto, punti d’incontro, organizzano i contatti con le istituzioni ed elaborano progetti di partecipazione, con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita degli abitanti residenti in rioni che spesso presentano una forte concentrazione di disagio sociale.
Le esperienze di questi 25 anni di attività sono state esaminate nel corso del “Festival delle Comunità di Habitat Microaree”, organizzato al museo Revoltella di Trieste, riunendo operatori, ma anche assistiti e volontari che hanno raccontato le proprie sensazioni ad amministratori ed esperti, sottolineando soprattutto come lo stare assieme, il partecipare, poter contare su qualcuno, al di là del risultato e dell’obiettivo immediato dei progetti, aiuti a superare le difficoltà e “faccia bene alla salute”.
“Nella nostra attività - dice Massimiliano Capitanio, esponente della cooperativa la Quercia e coordinatore generale del progetto - capita d’incrociare istanze di tutti i tipi. Da quella del cittadino che ha un piccolo pezzo di terra su cui vengono fatte delle attività, che però non ha l'acqua, e non sa a chi rivolgersi, fino a problemi ben più complessi. Il periodo del Covid ha poi segnato una linea di separazione: oggi una delle funzioni principali che ci troviamo ad affrontare coi nostri operatori è la gestione dei conflitti sia tra singole persone, sia tra parti di comunità contro altre parti di comunità sui territori".
Ci sono delle differenze di esigenze e richieste tra rione e rione?
“Assolutamente sì: a parte gli aspetti più campanilistici, o micro campanilistici, perché ogni rione pensa di essere una realtà a sé che si materializza nel cosmo, scollegata da tutto, ci sono indubbiamente delle peculiarità: un rione come Gretta ad esempio, una delle zone in cui è attivo il programma, ha delle necessità legate al fatto che gli appartamenti sono tendenzialmente piccoli, ci sono mediamente una, al massimo due persone che vivono all'interno, e portano ovviamente un tipo di esigenza. Se pensiamo invece ai grandi complessi di proprietà Ater, come Valmaura, Melara, o Borgo San Sergio, gli appartamenti sono spesso molto più grandi, ospitano famiglie anche molto numerose e quindi ci sono richieste completamente diverse. Un altro aspetto riguarda poi il fatto che alcuni di questi rioni, purtroppo non la maggioranza hanno avuto, per fortuna, abbattimento quasi totale delle barriere architettoniche, e quindi anche Ater, in fase di assegnazione delle case per persone con vari tipi di disabilità, sa già che può indirizzare e rivolgersi a una serie di rioni e di complessi e non ad altri, caratterizzando ulteriormente il tipo di attività delle microaree”.
Quante persone gravitano attorno a tutto il sistema?
“Le aree sono 14. Diciamo che la dotazione di minima è data dai 15 operatori Habitat Microaree delle cooperative sociali, poi ci sono almeno tre assistenti sociali, che hanno competenze su ambiti diversi da minori, famiglie, anziani, adulti, ci sono 14 referenti di microarea di azienda sanitaria e tre persone di Ater che si occupano in maniera specifica di Habitat Microaree a cui vanno aggiunti ovviamente i tecnici di zona, i geometri nel caso di progetti nuovi, gli architetti, gli ingegneri, quindi direi che siamo tranquillamente intorno al 70/80 persone più quelle delle organizzazioni coinvolte per i singoli progetti".
Fra gli intervenuti in sala, c’è stato anche chi ha sottolineato che, contrariamente a quanto si può pensare, la solidarietà emerge più nelle aree periferiche, piuttosto che nelle zone più centrali, e più abitate, quelle dove si pensa che in realtà i problemi non ci siano o siano minori…
“In realtà anche in una città come Trieste stiamo sperimentando quello che normalmente si verifica, ed è ben noto alla letteratura che si occupa di sviluppo di comunità, nei cosiddetti paesi del Sud del mondo, e cioè quei paesi dove esiste una povertà materiale, ma esiste una ricchezza relazionale. Qui, rispetto a rioni periferici o rioni centrali, c'è un po’ questo: laddove c'è magari più povertà materiale, c'è maggiore ricchezza relazionale, e viceversa. È una cosa che purtroppo anche da noi effettivamente si nota”.
Il Festival fa parte di una serie d’iniziative organizzate nel corso dell’estate, come dibattiti, feste di quartiere, cinema all’aperto a tema, mostre fotografiche rionali, abbellimento di sedi e spazi nei diversi territori per includere persone, promuovere partecipazione e favorire sviluppo di relazioni positive.
Alessandro Martegani