Una situazione insopportabile. Lo dicono tutti ma alcuni, con istriana remissività e tolleranza, affermano: “Stiamo vivendo un periodo anormale caratterizzato da restrizioni e divieti, la polizia sta facendo il proprio lavoro e attuando quanto deciso a Zagabria e a noi non rimane che avere un po’ di pazienza e sperare che passi quanto prima”. Altri invece, come Ariella Radešić, impiegata a Trieste dove si reca cinque giorni a settimana, non hanno paura di dire che è una vergogna. “Un conto sono le lunghe attese quando si va in vacanza o si raggiunge la propria “vikendica” (la seconda casa ndr), un altro è aspettare incolonnati dopo otto ore di duro lavoro”, ci dice la giovane donna descrivendo il vero e proprio calvario a cui è sottoposta lei come tanti altri cosiddetti migranti quotidiani.
Un numero incerto quello dei pendolari interstatali ma, tenendo conto delle cifre fornite da alcune associazioni sindacali italiane, che parlano di almeno 10 mila lavoratori d’oltreconfine (di cui il 35 per cento è sloveno e il 65 è croato, è facile calcolare che dall’Istria e dal Quarnero sono all’incirca 6.500 le persone con residenza in Croazia che vanno quotidianamente a lavoro in Friuli Venezia Giulia e Veneto). Forse non tutti, ma la stragrande maggioranza di loro passa un valico due volte al giorno e lo stesso vale per i numerosi frontalieri istriani con impiego in Slovenia, dove naturalmente lavorano, pure, tanti cittadini sloveni che invece hanno casa e residenza fissa a sud del Dragogna.
Cifre e problemi ignorati sia da Zagabria, prima interessata, sia da Lubiana e Roma con le prime due – lo abbiamo recepito anche durante il recente incontro sul Dragogna tra i capi diplomazia Logar e Grlić Radman- quasi infastidite dalle richieste di aiuto di una categoria povera, ma pur sempre importante dell’ economia regionale che auspicherebbe di avere- così come esisteva nell’ ex Jugoslavia- una corsia preferenziale, un valico secondario per facilitare, specie nei mesi estivi ed in questo periodo di restrizioni, il passaggio delle frontiere.
“È importante aprire le porte agli ospiti, al turismo, ai cosiddetti vikendaši, ma si dovrebbe pensare pure a noi, perché la situazione sta diventando insostenibile”, ci dice l’umaghese Luka, meccanico in un’azienda capodistriana che nei giorni scorsi si è fatto più di 5 ore di attesa al Dragogna. Stessa sorte condivisa dalla slovena Mojca che da una quindicina di anni vive a Caldania. “Non è possibile che sia nella stessa condizione dei miei amici che da Lubiana vanno al mare a divertirsi. Io a casa ho due figli che mi aspettano, devo far da mangiare e pulire; e la mia giornata, dopo il lavoro in banca, non dovrebbe arenarsi con una o due ore al confine anche perché, con un po’ di buona volontà, la situazione potrebbe essere risolta facilmente”.
“In questa settimana sono stata fortunata e non mi sono accorta delle difficoltà, probabilmente sarò passata in orari che non erano di punta”, ci spiega invece la buiese Ondina che scrollando le spalle rassegnata aggiunge: “Questo è il nostro destino e fino a quando la Croazia non entrerà nell’ area Schengen non possiamo attenderci miglioramenti”. A non condividere la sua opinione invece tanti altri frontalieri che sembrano sempre più irritati con le autorità centrali, ma anche con quelle regionali. “Se ho capito bene i ministri Logar e Radman Grlić hanno detto che i problemi locali vanno risolti localmente, ma nessuno della Regione Istriana o della Litorale ha mai voluto farsi carico della nostra questione: nel capodistriano sono succubi di Lubiana, mentre per quanto riguarda la parte croata, la Dieta democratica istriana ha più volte dimostrato che l’Istria termina sul Quieto”, rileva un’altra nostra interlocutrice. Come non darle ragione?
Lionella Pausin Acquavita