
Nell’arringa conclusiva la pubblica accusa ha chiesto due anni di detenzione per Janša e per l'imprenditore Branko Kastelic, coimputato per una controversa operazione immobiliare a Trenta, nell'Alto isontino, mentre per Klemen Gantar, accusato di aver avuto un ruolo di facilitatore, la pena sospesa di un anno. Il pubblico ministero Boštjan Valenčič ha spiegato che l’accusa non è di aver acquistato a un prezzo di favore un terreno non edificabile, ma di aver aiutato Kastelic a ottenere un corrispettivo troppo alto dall’azienda che l’ha poi effettivamente acquistato, un lampante caso di corruzione a favore di Janša, allora Primo Ministro. Una tesi che ha convinto l’avvocato difensore dell’ex premier a paragonare il processo in corso con l’affaire Patria, quando nel 2014 Janša scontò “una pena detentiva illegale a seguito di un verdetto illegale", sentenza provvisoria che venne poi in effetti annullata all’unanimità dalla Corte costituzionale. Oggi come allora, su questa vicenda ormai ventennale il vero peso specifico è dato dagli umori dei suoi sostenitori, per i quali la vicenda processuale è un copione già visto. Dopo che nel fine settimana è circolata una lettera anonima di un ex dipendente del tribunale di Celje che parlava di processo pilotato e sentenza già scritta, seccamente smentita dall’organo di giustizia, la folla riunita nella città stiriana ha atteso con trepidazione una sentenza che, però, è stata rinviata a venerdì prossimo. Sul palco allestito di fronte al tribunale si sono alternati per quasi due ore i principali deputati dell’SDS, che pur con una retorica ispirata a quello che ritengono un copione già scritto, hanno dovuto in qualche modo contenere gli animi accesi e per certi versi infuocati di centinaia di persone pronte a tutte per il proprio leader, e allo stesso tempo stufe di quella che chiamano malagiustizia a orologeria.
Valerio Fabbri





