Un editore con la passione per le lingue, soprattutto quelle minori e in via di estinzione, e una poetessa istriana innamorata della sua terra. Dal loro incontro è nato "L Picio Principe", traduzione nel dialetto di Valle d'Istria del celebre racconto di Antoine de Saint-Exupéry curata da Romina Floris per le edizioni tedesche Tintenfass (che in catalogo hanno decine di trasposizioni del volume, quindici delle quali in altrettanti dialetti italiani).
"Mi è sembrata un'ottima occasione per far conoscere il nostro dialetto nel mondo, non limitandoci soltanto alla nostra e alle nostre comunità. Grazie a un editore europeo, che ha una distribuzione mondiale, il libro, magari, potrà incontrare l'interesse anche da parte di un pubblico di specialisti", spiega l'autrice, a cui l'impresa di traduzione del romanzo è costata non poca fatica. "C'è stato uno sforzo notevole, per mantenere da un lato il significato del testo originale, e dall'altro anche l'originalità del dialetto vallese. Ho cercato di usare il più possibile parole schiettamente dialettali, ricorrendo agli italianismi laddove strettamente necessario". Preziosa si è rivelata naturalmente la consultazione dei vocabolari disponibili per le parlate istriote, su tutti il Vocabolario del dialetto di Valle d'Istria opera del professor Sandro Cergna, studioso dell'Università di Pola, cui Romina Floris si è uniformata anche nelle scelte grafiche, in particolare nell'abbandono dell'apostrofo (come nell'articolo L che compare nel titolo, al posto di 'L). "Mi è capitato, a volte, di impiegare ore per tradurre certi passaggi ... Ma alla fine la soddisfazione è stata veramente tanta!".
Ed ecco l'incipit del "Picio Principe" nella versione in vallese:
Na olta, co vevi sie ani, iè visto n bilitisimo diʃegno, nten libro sula foresta vergena, col titolo "Storie Viveste". Iera la figura de n serpo boa che niutiva na bes’cia. Eco la copia del diʃegno. Ntel libro iera scrito: «I serpi boa niuto l anemal duto ntrego, sina mastigalu. Despoi noi riva piun a movise e i dormo per i sie meʃi che ghi acoro per digerì.»
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