“Türkiye” e non più “Turkey”: il governo turco si è lanciato nelle settimane scorse nell'inusuale sforzo di modificare il nome con cui il paese anatolico viene indicato nel mondo, attraverso una campagna mediatica che dovrebbe coronare nella richiesta di sostituzione anche a livello delle Nazioni Unite.
A prima vista potrebbe sembrare un obiettivo piuttosto bizzarro, per un paese attraversato da problemi e sfide sia a livello interno che internazionale, dalla gestione di milioni di profughi sul proprio territorio alla sempre irrisolta questione curda, per arrivare alle crescenti tensioni sociali dovute a difficoltà economiche e crollo della valuta nazionale.
Per i dirigenti turchi, però, il nome “Turkey”, che in inglese e a livello internazionale indica il paese da secoli, rappresenta un problema, e va cambiato. Innanzitutto perché, con lo stesso termine, si indica un volatile, il tacchino, la cui immagine è molto lontana dalla gloria e potenza che l'élite di Ankara associa alla Turchia. Tanto più che, nel registro informale, “Turkey”, o “tacchino”, è l'epiteto rivolto a chi è imbranato o non proprio brillante nelle proprie attività.
Sempre più intenzionato a proiettare la propria immagine di forza anche all'esterno, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha deciso di lanciare quindi il termine “Türkiye” - con cui gli stessi turchi chiamano il proprio paese - anche a livello planetario: quanto cambiare un nome sulla carta, possa davvero modificare la percezione di un paese sempre più autoritario, resta però difficile da prevedere.
Francesco Martino
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