Non è una gran consolazione, ma i numeri dello spauracchio economico del momento per Stati Uniti ed Europa, l’inflazione, sono briciole se si guarda all’esplosione dei prezzi in Turchia.
Gli ultimi dati dell’inflazione nel paese diffusi dall’Istituto di statistica nazionale Tuik hanno fatto segnare il 61 per cento, il valore più alto degli ultimi 20 anni che, riportato nell’economia reale, significa una perdita del valore d’acquisto di più della metà di uno stipendio ogni anno.
A spingere la spirale dell’inflazione sono soprattutto i trasporti, raddoppiati in un anno, ma anche i generi di prima necessità come alimentari e bevande sono aumentati del 70 per cento, e del 60 sono cresciti i prezzi di alberghi, bar e ristoranti.
Non si tratta però di un fenomeno legato alla crescita dei prezzi delle materie prime e dell’energia che ha colpito un po’ tutto il mondo, innescata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina: la situazione internazionale non ha aiutato, ma i problemi della Turchia hanno soprattutto origini interne.
La spirale inflazionistica si è innescata lo scorso autunno, a causa del crollo del valore della lira turca, quasi dimezzato in un anno, anche per la decisione della Banca centrale di tagliare il tasso di interesse di riferimento per agevolare lo sviluppo economico voluto dal presidente Recep Tayyip Erdoğan, che insiste nel voler stimolare la crescita, gli investimenti e le esportazioni, sostenendo, contrariamente al pensiero economico ormai consolidato, che sono i tassi elevati a causare l’inflazione.
Svalutare la moneta nazionale è uno stratagemma per aumentare le esportazioni, visto che i prodotti nazionali costano di meno all’estero, ma il rovescio della medaglia è che i prodotti importati, a partire dall’energia, aumentano di prezzo, innescando l’inflazione: le esportazioni in effetti hanno registrato un incremento del 20 per cento su base annua, ma a marzo il deficit della bilancia commerciale ha superato gli 8 miliardi di dollari soprattutto a causa dei costi dell’energia.
I prezzi sono schizzati a un ritmo di 5 punti e mezzo al mese, una quota che in Europa viene considerata eccessiva nell’intero anno, e che rischia di annullare il potere d’acquisto degli stipendi mandando in povertà milioni di persone. Ormai non sono solo i prodotti esteri ad aumentare: perfino il cosiddetto “pane del popolo”, pane a prezzi controllati venduto in chioschi comunali, costa un quarto in più rispetto allo scorso anno, mentre quello a prezzo libero è triplicato. Il presidente Erdoğan, che aveva insistito per tagliare i tassi di interesse e recentemente ha anche rimosso i vertici dell’Istituto nazionale di statistica, senza però riuscire a frenare la diffusione dei dati, ha alzato il salario minimo e bloccato le bollette, ma molte famiglie hanno ormai varcato la soglia di povertà.
Nonostante le promesse della Banca centrale di sostenere la valuta locale, finora la politica monetaria turca non sembra voler adottare criteri più restrittivi, e si punta invece a frenare la crescita dei prezzi con misure che spingano impedire ai turchi di acquistare valute forti per proteggere i propri risparmi: situazioni simili infatti spingono i risparmiatori a vendere le lire turche per comprare soprattutto oro o dollari, svalutando così ulteriormente la moneta nazionale.
Alessandro Martegani