“Risalire dalla foiba e vedere quello che era successo: è stato un po’ come se ci avessero ributtato dentro”. Andrea Romoli, giornalista del TG2 che ha subito il danneggiamento delle automobili della Rai mentre con la troupe stava documentando i resti ancora presenti nella foiba di Corgnale-Vilenica, ammette di essere rimasto colpito dall’episodio, in un paese, aggiunge, come la Slovenia, “dove mai mi sarei aspettato che accedesse uan cosa di questo genere”.
“Già andare in una foiba è un po’ come fare un viaggio nel tempo, perché in effetti è una camera del tempo, che conserva tutto. Quando vai sotto hai proprio una sensazione fisica, come se quel dolore, l'orrore degli uomini che vi hanno trovato la morte, fosse ancora imprigionato là sotto, quindi, al di là della fatica fisica, perché non sono calate semplici, si riemerge proprio con questo senso di oppressione, torni alla luce e alla vita, e con quel gesto è come se ti avessero rimandato di nuovo indietro, come se ci avessero ributtato dentro”.
“Siamo rimasti veramente scioccati tutti. Al di là della modesta entità dei danni (perché non è che c'hanno distrutto le macchine, ci hanno spaccato gli specchietti, a una hanno spaccato il parabrezza), in tutto questo abbiamo ripercepito la stessa paura che in qualche modo sentivamo sotto”.
Della tragedia delle Foibe ormai si parla molto, anche grazie a colleghi come te che fanno questi reportage: ti aspettavi una reazione simile? Quando tu racconti queste realtà ti aspetti che possa succedere una cosa del genere?
“In Slovenia assolutamente no, è il paese più civile d'Europa, qui una cosa del genere proprio non me l’aspetto, ed è un secondo motivo per cui ero scioccato. È un paese in cui mi sento sicuro, dove mi aspetto di poter lasciare la macchina con le chiavi sul cruscotto, perché qui queste cose non succedono, ma posso capirle in un certo senso. Io vengo da Gorizia, una città dove i conti con queste cose li abbiamo fatti, e li abbiamo fatti da tempo. Le due comunità, la comunità italiana e la comunità slovena, sono ormai ogni giorno più unite. Questa unità, questa ricostruzione di solidi rapporti, anche di fiducia reciproca, è nata proprio perché uomini ponte, uomini cerniera, hanno avuto la capacità di fare i conti con queste cose, di ammettere i reciproci torti (che poi sono torti che non ho fatto che io e non ha fatto la mia generazione, ma uomini di 80 anni fa). Condividere reciprocamente questi dolori, il male fatto dal fascismo, il tentativo di snazionalizzare e di violentare la comunità slovena, e poi l'orrore delle foibe, e delle deportazioni commesse dai militari titini, accettarle, dire ‘sono successe ma adesso andiamo avanti’, ha permesso di tenere lontanissime queste cose da noi. Evidentemente, se questi conti non li fai, o non li fai fino in fondo, se non accetti i reciproci mali, poi queste cose possono ancora succedere”.
Ma secondo te si è trattato di un episodio isolato di un gruppo, o una persona, che passava di lì e si è preso questa iniziativa, oppure è una cosa un po' più diffusa, una sorta d'intolleranza verso questo tipo d’informazione?
“C'è sempre da lavorare per la democrazia. La pace e la convivenza, come ha detto il mio amico e dirigente dell’SKGZ Livio Semolič, si guadagnano ogni giorno, con un lavoro continuo, altrimenti si torna indietro; se non si va avanti si torna indietro. Per quanto riguarda l’episodio, credo che ci avessero visto passare dal villaggio che era sotto, hanno capito dove andavamo e, senza esagerare, perché non hanno esagerato, ci hanno dato un avvertimento: levatevi di torno. Potevano fare molto peggio alle macchine, ci sono stati danni relativamente limitati, però era un segnale”.
“La cosa che mi ha impressionato di più, in realtà, sono state le croci abbattute. Sopra la foiba erano state collocate due grandi croci che segnavano il luogo e commemoravano i morti, poste dal governo sloveno ovviamente, ma entrambe le croci erano state abbattute. Noi ne abbiamo tirata su una, l’altra era in un dirupo e non siamo riusciti a recuperarla. Tirare giù una croce è un atto pesante: è la croce di un cimitero, perché la gente à ancora là sotto. È un atto pesante, enorme, mi ha colpito più quello dei danni alla macchina. Di fronte a luoghi simili, nel goriziano, le croci ci sono, e sono tutte lì. Sono cose che hanno un valore: dagli anni ‘50 ad esempio la gente dei villaggi sloveni il 2 novembre va a mettere sulle foibe dei lumini, e un vecchio che ho intervistato anni fa mi ha raccontato che negli anni del regime l’UDBA andava a presidiare le Foibe il due di novembre per impedire che la gente ci mettesse le candele: il tre novembre i lumi ritornavano a posto. È un atto di pietà umana, popolare, semplice, che da noi si fa, e vedere delle croci abbattute impressiona”.
Alessandro Martegani