Foto: Radio Slovenija
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Se il famoso aforisma del laburista Harold Wilson sosteneva che una settimana è un periodo davvero lungo in politica, figuriamoci quanto possano pesare 8 mesi per una posizione di caratura internazionale, in un contesto in continua evoluzione come quello europeo, perlatro per un incarico delicato nella regione balcanica. Sono molte le ragioni che Pahor ha elencato per motivare la decisione di non presentare la sua candidatura al ruolo di mediatore per il dialogo fra Serbia e Kosovo, i cui termini sono scaduti nel pomeriggio di venerdì 3 gennaio.
Da quando ad aprile scorso l'attuale rappresentante dell'Ue nel ruolo, lo slovacco Miroslav Lajčak, aveva consigliato a Pahor di proporsi in vista delle sue dimissioni, sono cambiate molto cose. Dapprima il responsabile della politica estera europea, Josep Borrell, non se l'è sentita di forzare la mano prima delle elezioni europe di giugno e ha costretto Lajčak a portare a termine il suo mandato. A questa prima strettoia, quando pure Pahor poteva contare sull'appoggio di governo e presidenza sloveni, è seguita poi la nomina di Marta Kos a commissaria per l'allargamento, un cambio in corsa dopo l'affossamento della candidatura di Tomaž Vesel, uscito di scena a un passo dalle audizioni per un ruolo ben diverso. Forse già allora era chiaro che non sarebbe più toccato a lui ricoprire quel ruolo, anche perché, come spiegato in uno dei 7 punti messi insieme nel documento, Pahor aveva assunto una serie di incarichi consulenziali incompatibili con il ruolo. Pahor però non ha rinunciato ad assestare qualche colpo, affermando che per come si è evoluto il ruolo è più consono per un diplomatico che non per un politico, un modo per dire che le funzioni dell'inviato sono ormai ridimensionate, anche perché il mandato è annuale e non più biennale, con il rischio che il budget venga ulteriormente ridotto nel breve termine. Ma il vero sassolino dalla scarpa, Pahor se lo è tolto quando ha detto che "gli amici dei Balcani occidentali" hanno seguito con più interesse le elezioni americane che non quelle europee. Come a dire che quello che accade in Europa viene deciso a Washington più che a Bruxelles.

Valerio Fabbri