Alla fine, ne porteremo fuori 100.000: traduttori, medici, ingegneri, artisti, sportivi, giornalisti... Tutta gente che ha collaborato in questi vent’anni di occupazione con noi, con le nostre truppe e con le nostre organizzazioni che hanno operato in loco. Se ne vanno i migliori, quelli che abbiamo scelto di far salire sui nostri aerei. In questo triste finale non abbiamo saputo evitare loro di dover passare per i gironi infernali che li hanno portati all’aeroporto di Kabul. Potevano ampiamente prevedere che sarebbe andata così, ma abbiamo preferito non anticipare i tempi dell’evacuazione, convinti che i talebani ci avrebbero messo più tempo a prendere il controllo di Kabul. Non è stata altro che l’ennesimo errore di valutazione che abbiamo fatto nei nostri vent’anni in Afghanistan.
Noi abbiamo preso quelli che non avranno troppi problemi ad integrarsi nelle nostre società. Non è la prima volta che accade. Lo abbiamo visto anche in Siria, dove con lo stato al collasso se ne è andata prima di tutto la “creative class”, quella che Angela Merkel e la Germania, ha accolto a braccia aperte.
In questa rotta di Caporetto, dove abbiamo fallito dal punto di vista militare, politico e culturale, molti nostri collaboratori verranno lasciati lì, nelle grinfie dei talebani. Se riusciremo e se vorremo, andremo a prenderli in futuro, ma intanto martedì sull’Afghanistan si spegneranno i riflettori. Gli “studenti” avranno mano libera di imporre le loro regole al paese e l’Afghanistan sparirà dalle televisioni e dalle prime pagine dei giornali. Nessuno ricorda volentieri le sconfitte e così quello che resterà sarà qualche riga di cronaca sulla guerra civile tra talebani e l’Alleanza del nord, gli allarmati rapporti sull’emergenza alimentare, sulla condizione della donna e sulla situazione nei campi profughi ai confini afghani. Quello che rimarrà di questa storia sarà, però, anche l’ennesimo ruolo marginale giocato dall’Europa, che senza un esercito ed un sistema integrato di difesa è destinata a rimanere un gigante dai piedi d’argilla, in balia di giochi geopolitici fatti da altri.
Stefano Lusa