Foto: Reuters
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I sorteggi dei quarti non lasciavano ben sperare, con la volenterosa Roma che veniva abbinata ai marziani di Barcellona, mentre la Juventus pescava il Real Madrid, relativamente staccato nella Liga, per cui super-motivato nelle competizioni europee.

E invece no. Perché la Roma si presenta al Camp Nou senza paura, con l’abruzzese Di Francesco che motiva i suoi a far ciò per cui son pagati: semplicemente giocare a pallone, dando il massimo come se non vi fosse un domani. E’ partita male, con un rigore non dato. E proseguita peggio, con due autogol. Ma i giallorossi non si perdono d’animo, insaccando il 3-1, sfiorando il 3-2 ma incassando il 4-1. Sembrava finita. Ma non per la Roma, che al ritorno ci mette ancora più grinta, volontà e coraggio, credendoci fino alla fine. Dopo aver trasformato il rigore del 2-0, De Rossi cacciato un urlo capace di risvegliare un morto. Motiva a molla i suoi, che insaccano il 3-0, rispedendo a casa i marziani, in barba ai pronostici e ai fatturati.

L’indomani tocca alla Juventus credere nelle favole, anche se si parte da una bella scoppola. A Madrid, I bianconeri giocano con attenzione e determinazione, arrivando a ribaltare lo 0-3 dell’andata. Salvo poi crollare nel finale, quando da una distrazione difensiva sono nate l’espulsione di Buffon e il discusso rigore , trasformato da Cristiano Ronaldo (giustamente applaudito all’andata per un gol da cineteca). Il popolo del web si spacca tra “complottisti” (è tutto un magna magna) e “giustizialisti” (chi di spada ferisce....).

Ora possiamo argomentare per ore ogni singola dimensione del piano tecnico-tattico, ergendoci a commissari tecnici o moviolisti, sparando schemi che sembrano elenchi telefonici o etichettando ogni singolo ruolo di ogni singolo giocatore con cinque o sei tecnicismi, inanellati in modo più o meno approssimativo e spocchioso. Finiremmo per annoiare, annoiarci e dar ragione a chi non ama questo sport.

Tutti ricordiamo con nostalgia il passato, l’infanzia e i tempi che furono, al cospetto di un presente di mediocrità e un futuro incerto. Perché anziché in ufficio, le giornate si passavano tra i banchi di scuola e i giardinetti, con i giacconi a far da palo. Ci sfidavamo, davamo del nostro meglio, lavoravamo di fantasia trasformandoci in Gullit che sfidava Bergomi, o Baggio che puntava Ferrara. La vita viaggiava su un ottovolante di ormoni, emozioni e sogni. Credevamo nelle favole, giocavamo per ore, come se esistesse solo il pallone, come se non ci fosse un domani. Come ha fatto la Roma. E poi, a un tratto, chiamava la mamma, e allora il mondo crollava. “Chi segna l’ultimo gol vince”. E lì era baruffa, i più grandi litigavano, qualcuno andava a casa e quello più bravo puntualmente la risolveva. Come al Bernabeu.

Perché alla fine, in un mondo sempre più veloce, freddo, spersonalizzato e mediatizzato, poche cose come il calcio portano emozioni autentiche, sogni e magia, abbattendo qualsiasi barriera sociale, geografica o culturale. Un mondo parallelo dove non sempre vince il più ricco, dove ci si può scordare di mutui, scadenze e problemi, tornando direttamente in cortile, a giocare, a correre inseguendo un pallone, a credere nei sogni, sentendosi invincibili. Come se non vi fosse un domani, come se esistesse solo il pallone.

E a volte, dentro questo vortice, capita di dire e di pensare cose impensabili a mente fredda, arrivando a giustificare l’ingiustizia se ci fa vincere o prendendocela con tutti quando si perde. I bambini bravi non sono tanto quelli che non sbagliano mai, ma quelli che poi ci ragionano, ritrattano e chiedono scusa.

E poi arriva la sveglia a ricordarci che domani comunque arriva. E allora bisogna alzarsi, andare a timbrare il cartellino, svoltare la giornata. Ed è subito sera.

Bene, manca un giorno in meno al weekend di campionato.

Antonio Saccone