Il 23 dicembre 1990 i residenti in Slovenia si recarono alle urne per il plebiscito sull’indipendenza. Il quorum fissato era del 50%. Solo se oltre la metà degli aventi diritto avesse detto sì, la consultazione sarebbe stata considerata valida.
L’esito del voto sorprese anche i più ottimisti. L’88,5% degli aventi diritto (ed oltre il 95% di quelli che si recarono alle urne) dissero che volevano vivere in una Slovenia indipendente. Fu un segnale fortissimo per la leadership politica che a quel punto poté procedere spedita verso la proclamazione dell’indipendenza che sarebbe arrivata 6 mesi dopo, mentre per il riconoscimento internazionale bisognò attendere altri sei mesi.
Fu l’unità della casse politica ed un vero e proprio patto sociale con i propri cittadini, che portò il paese a realizzare quello che retoricamente veniva definito un “sogno millenario”. Di colpo “L’impossibile era diventato possibile”, per dirla con un profetico spot pubblicitario, che nella seconda metà degli anni Ottanta, era stato coniato da una nota catena slovena di ferramenta. Quella slovena è stata a lungo la storia di un successo, con il paese che navigava con il vento nelle vele verso l’Unione europea e la Nato, mentre il resto della Jugoslavia era precipitato in una altra serie di sanguinose guerre balcaniche. Fu proprio per perseguire quei grandi obiettivi che continuò a reggere l’unità, quella che d’un tratto scomparve quando si arrivò alla meta. All’epoca si disse che finalmente la politica slovena poteva tornare ad essere normale. Ripartì così la tradizionale “guerra civile” permanente, che nella storia nazionale aveva prima visto contrapposti liberali e clericali, poi comunisti e domobranci ed adesso janšisti e antijanšisti. Così il mantra degli “interessi nazionali”, che teneva unito il paese, in un battibaleno è stato sostituito da un brutale scontro senza quartiere tra le forze politiche, che pensano oramai più a farsi la guerra che a guardare dove sta andando la Slovenia.
Stefano Lusa