Il batti e ribatti si incentra sul Vademecum per il Giorno del Ricordo dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia ed particolare l’uso del termine “pulizia etnica” riferito a quanto accaduto nell’immediato dopoguerra alla comunità italiana nella Jugoslavia di Tito. Un termine coniato negli anni Novanta per le recenti guerre civili nella ex federazione e applicato a eventi di quarant’anni prima.
Per Eugenio di Rienzo al concetto di “pulizia etnica” il Vademecum “oppone, un tortuoso ragionamento secondo il quale non si potrebbe parlare, di pulizia etnica perché tra i martiri della mattanza titina si contavano anche molti italiani, in origine etnicamente sloveni, croati, oppure tedeschi e austriaci e di altra etnia. È certo – prosegue di Rienzo -che per fare simili affermazioni bisogna avere davvero scarsa conoscenza di ciò che fu l’italianità di quelle terre di confine. Lì, infatti, l’appartenenza alla patria italiana non derivava soltanto dal dato biologico della discendenza razziale ma nasceva molto spesso dalla scelta spontanea di chi s’identificava in una comunità caratterizzata da omogeneità di lingua, cultura, tradizioni e memorie storiche, stanziata, da secoli, in quel territorio”.
Pupo controbatte che esistono sulla sponda orientale dell’Adriatico italiani “etnici” e quelli per i quali l’italianità era un fatto di elezione, quindi “parlare dell’esodo come di una pulizia etnica – scrive Pupo- è un atto di riduzionismo. L’esodo fu molto peggio, perché coinvolse tutti gli italiani, anche quelli non etnici, per i quali l’italianità era un fatto di elezione. Se fosse stato “soltanto” una pulizia etnica, oggi in Istria gli italiani rimasti sarebbero centomila e non un paio di decine di migliaia”.
Una tesi, quella dell’appartenenza etnica suggestiva, soprattutto se usata a riguardo degli italiani in generale ed in particolare per quelli dell’Adriatico Orientale. La storia della Penisola e anche delle regioni che vanno da Trieste alle Bocche di Cattaro sono segnate da invasioni e colonizzazioni ed è quindi difficile usare il termine etnico nel senso antropologico del termine. Ci vorrebbero origini comuni, ma per l’Italia nel suo complesso è difficile parlarne.
Che ci siano stati travasi, lenti o repentini cambi di identità nell’Adriatico Orientale è oramai un fatto assodato, com’è anche certo che il concetto di “appartenenza nazionale” è piuttosto recente e sarebbe difficile trovarne traccia dalle nostre parti prima del Risorgimento.
Da questa parte del confine, in particolare, la divisione tra italiani “etnici” ed “italiani per scelta” appare quindi quantomeno inopportuna. Ovviamente si potrebbe discutere dell’invenzione degli stati nazionali ed anche delle nazionalità, ma sta di fatto che oggi esistono e fanno parte del nostro comune sentire. Detto ciò appare evidente che dirsi italiani, sloveni, croati, tedeschi è una libera scelta. Il DNA e la “stirpe” contano poco. Lo vediamo ogni giorno, parlando con i vecchi compagni di scuola o con persone che troviamo nelle nostre comunità e che non sapevamo ne facessero parte.
Le polemiche di questi mesi, che vanno dalla riscoperta della vocazione imperiale ed austroungarica della nostra regione e arrivano sino a quelle legate alla statua a Trieste dedicata a Gabriele D’Annunzio non fanno che indicare una ricollocazione in senso identitario. È la politica delle piccole patrie, della decostruzione dei precedenti miti nazionali e delle nuove invenzioni della tradizione, più legate al territorio, ma forse anche più soffocanti.
Stefano Lusa