Avete presente quegli incontri di boxe dove due pesi massimi forti, ben preparati e motivati a vincere, combattono strenuamente fino all’ultima ripresa? Quelli che si risolvono ai punti, con uno scarto minimo, con i pugili che si affrontano senza lesinare colpi, che finiscono con le facce sfigurate, trovando chissà dove energie per non tracollare? Ecco, il duello scudetto tra Juventus e Napoli può essere descritto così, con le contendenti che hanno dato vita a una lotta avvincente, vinta da chi ha avuto un minimo più di gamba per non mollare quando ormai si raschiava il fondo del barile, cercando quelle energie che sanciscono lo spartiacque tra la vittoria e la sconfitta.
Onore quindi alla Juventus dei record, che vince il trentaquattresimo scudetto, il settimo titolo di fila e il quarto dell’era Allegri. Il segreto del successo sembra sempre lo stesso: guardare a se stessi, fare del proprio meglio senza accampare scuse, senza accusare sistematicamente fattori esterni. Organizzarsi al meglio, senza trascurare alcun dettaglio. Perché infondo la Juventus sa bene che trovare alibi per i propri insuccessi è una strada facile, ma non è un atteggiamento vincente.
Il primo anno di VAR ci ha probabilmente insegnato che è possibile ridurre gli errori arbitrali, ma non annientarli. Anche perché infondo in molti casi la correttezza di una decisione dipende dal tifo dello spettatore più che dalla decisione in se. Gli arbitri sbagliano e sbaglieranno, così come sbagliano gli allenatori e i calciatori. Con la differenza che spesso i fischietti guadagnano molto meno, vengono criticati anche quando azzeccano, corrono e fanno fatica ma non hanno mai i tifosi a supportarli. Nessuno fa mai loro i complimenti, nel migliore dei casi non vengono insultati. Criticarli sistematicamente fa male al calcio, dove sempre meno persone scelgono di arbitrare, per cui il livello tenderà ad abbassarsi, influendo negativamente sulla qualità del gioco, oltre che sul regolare svolgimento delle partite dei ragazzini. Accusarli delle proprie sconfitte è un alibi da perdenti, sia in Italia che in Europa. E conservare sempre e comunque lo stesso atteggiamento vincente può davvero segnare la differenza tra una squadra che arriva #finoallafine o #finoalconfine.
Ne sa qualcosa la Roma, che ha visto festeggiare la Juventus nella speranza di scucire presto quel titolo dalle maglie bianconere: nonostante cessioni importanti e acquisti che han reso meno di quanto ci si potesse aspettare, i Giallorossi hanno brillato in Europa, vincendo un girone difficile ed eliminando squadre di marziani, in barba ad autogol e sviste arbitrali. Non era facile far bene, visto che era la prima stagione senza Totti, con un allenatore giovane che, pur non essendosi mai ritrovato su panchine così importanti, porta i Giallorossi in Champions League.
Onore al Napoli, che in un mondo di acquisti mediatici dove bisogna vincere tutto e subito, ha avuto il coraggio di rinforzandosi concedendo tempo all’allenatore e confermando in blocco la squadra. I Partenopei hanno disputato un campionato gagliardo al netto degli infortuni, trovando la forza di riaprire i giochi quando tutto sembrava finito. Salvo poi crollare psico-fisicamente sul più bello. Sembrava fosse l’avvio della vittoria della guerra, in realtà si è trattato di una battaglia.
A caldo, ci si può chiedere come farà la Juventus a trovare motivazioni per continuare a primeggiare, anche se poi le contendenti sembrano agguerrite e sempre meglio organizzate: chissà come sarà il mercato del Napoli e della Roma. E chissà che ne sarà del Milan, che raccoglie probabilmente meno di quanto si aspettasse, qualificandosi per l’Europa League senza mai essere stato in corsa per posizioni più importanti. Ci sarebbero altri mille “chissà” e ci sarà tempo per trovare risposte. I tifosi spagnoli, francesi, inglesi e tedeschi si stanno preparando a un’estate di calcio, con la Coppa del Mondo che incombe, alla quale l’Italia - tristemente, incredibilmente ma meritatamente - non partecipa. Ma hanno guardato campionati decisi da settimane se non da mesi, al contrario della Serie A, che sarà più “povera”, meno “attraente”, ma è risultata decisamente più vivace.
Il calcio è un gioco nel quale è facile identificarsi, partecipare, tifare, farsi un’opinione. Ma disturba il parlarne troppo, il far congetture sulle congetture, lo snaturare le partite e le competizioni riducendole a episodi, a scelte di singoli, a improbabili teorie del potere applicate a chissà quale disegno di “qualcuno”. Al netto di tutto, ciò che rende il calcio il gioco più bello del mondo (e volendo la vita il dono più prezioso) è la sua semplicità, l’imprevedibilità, l’impossibilità di incastrarlo in alcuna teoria scientifica. Si possono fare programmi, si possono provare a prevedere tutti i possibili fattori intervenienti, ma alla fine il pallone è rotondo e bisogna fare un gol in più o prenderne uno di meno: chi vince è felice, chi perde è triste, chi fa del proprio meglio è soddisfatto, chi non riesce si rammarica, chi trova alibi difficilmente primeggia, chi non ne trova tendenzialmente migliora.
Non è facile mettersi in gioco, ma prima o poi paga. Su un campo da calcio come nella vita.
Antonio Saccone