Dall’anno scorso nulla è cambiato. A “Koper” torna “Fantazima v Čudolandiji”. La festa di luci e colori, ideata alla vigilia delle scorse elezioni amministrative dall’ex sindaco Boris Popovič, appare, però, di anno in anno sempre più striminzita. Quello che rimane invece è il nome. Un marchio registrato, che ovviamente nemmeno quelli che sono arrivati dopo di lui hanno mai voluto cambiare. I sindaci passano, il “patriottismo” resta. A Capodistria sanno come si debbono fare le cose: il porto si chiama “Luka Koper”, la municipalizzata “Marjetica”, la banca era stata denominata “Banka Koper”, l’università avrebbe voluto essere solo della “Primorska”, mentre il tunnel avrebbe dovuto essere esclusivamente quello di “Markovec”. Tutti marchi registrati, nomi storici o denominazioni specifiche di grandi opere. La verità è che tutte le scuse sono buone per non usare l’italiano.
A Trieste il problema non c’è. Lì l’unica scritta bilingue è quella sulla Casa dei lavoratori portuali. Per trovarne altre bisogna cercarle tra le targhe sui palazzi del Consiglio Regionale o di quello provinciale. Lo scorso anno il sindaco aveva dato ad intendere che agli auguri in sloveno in Piazza Unità ci avrebbero pensato quest’anno. Dopo una “attenta” riflessione hanno scelto di evitare. Naturalmente tutti a Trieste a Capodistria, all’occorrenza, sono pronti a giurare sul multiculturalismo e sulla bellezza di una regione ricca di lingua, cultura e tradizione. Sono le solite frasi fatte. Alla fine, al di là dei diversi quadri giuridici esistenti tra le due città, il ragionamento è lo stesso: meno si usano le lingue delle minoranze e meglio è.
Stefano Lusa