Il nome di Vladimir Bartol, al di fuori di Trieste, non è molto conosciuto ai lettori italiani, se non forse per quel romanzo storico, "Alamut", che, scritto negli anni Trenta e rilanciato in Italia da un'edizione Rizzoli del 1993, continua a sorprendere per la modernità del tema trattato, il fondamentalismo islamico, ma che rappresenta allo stesso tempo, nelle intenzioni dell'autore, una "viva allegoria dell'epoca dei terribili dittatori tra le due guerre". Epoca in cui si ambienta anche il racconto - tratto dalla raccolta "Al Araf" - da cui prende il via "Qualcosa nell'aria", vaudeville erotico-sentimentale che il Teatro stabile sloveno di Trieste porta in scena da domani e fino al 5 febbraio ad apertura della stagione 2023, per i 120 anni dalla nascita dello scrittore triestino di lingua slovena, con la regia di Andjelka Nikolić.
Narratore e pubblicista, nato a Trieste, nel rione di San Giovanni nel 1903 (padre funzionario delle poste, madre giornalista e scrittrice), e morto a Lubiana nel 1967, Vladimir Bartol ha una produzione variegata, che riflette i suoi tanti interessi, e una cultura vasta, ricca di riferimenti letterari e filosofici ma anche scientifici. La sua stessa formazione universitaria, del resto, scorre su questo doppio binario, umanesimo e scienza. È inoltre affascinato da Freud e dalla psicoanalisi, e con una borsa di studio ottenuta dopo la laurea frequenta - a Parigi - corsi di psicologia alla Sorbona. Il legame con la città natale, in cui Bartol torna nel secondo dopoguerra e a cui dedica anche alcuni volumi di memorie, riaffiora - come fa notare lo studioso Miran Košuta - sia nell'impianto cosmopolita delle sue storie, sia nei temi comuni alla grande letteratura triestina del primo Novecento.
L'anniversario della nascita è un'occasione per riaccendere i riflettori su di lui, ricordando anche la sua attività di critico teatrale, frequentatore abituale dello Stabile sloveno e recensore degli spettacoli sulle pagine del Primorski Dnevnik.